Biografilm: conclusioni

Biografilm 2016

Articolo a cura di Laura Gramuglia

Non posso fare a meno di pensare che questa dodicesima edizione del Biografilm sia stata dominata dalle donne. Fin dalla sua presentazione, la locandina con l’immagine simbolo del festival, una Penelope Cruz ritratta con una rosa tra i capelli sul set di Ma Ma di Julio Medem, ti segue per giorni, esattamente come lo sguardo della sua protagonista. Inizia così il Biografilm, con l’anteprima italiana di un’opera oggi nelle sale, che soprattutto nella lingua originale, buca lo schermo e arriva al cuore dello spettatore. Stesso destino toccato in sorte, nell’ultima edizione, a Amy, il pluripremiato documentario di Asif Kapadia. Auguriamo a Medem la stessa fortuna.

Femmina è la regista Ester Gould, presente al festival con due progetti diversissimi in concorso. Il primo, Strike a Pose, è la cronaca di un sogno che si trasforma in incubo per i ballerini del Blonde Ambition Tour ingaggiati da Madonna nel 1990. L’incubo di non riuscirsi ad affrancare dall’immagine di sex toys che la cantante ha volontariamente cucito loro addosso, la fama che si trasforma in cenere e lo spettro del virus più diffuso tra la comunità omosessuale americana tra gli Ottanta e i Novanta, l’HIV. Sullo sfondo un ballo, il vogueing, celebre ben prima che Madonna lo trasformasse in una hit, uno stile scoperto in un locale di Chelsea, il Sound Factory, ispirato alle pose plastiche che i modelli assumevano durante i servizi per il noto magazine americano Vogue. Gould, dicevamo, in concorso al Biografilm con un’altra opera, diversissima, sussurrata quasi. Un diario intimo, un ritratto della sorella Rowan, dipinto dalla donna che più l’ha amata e forse ascoltata nella sua breve vita, la regista Ester. Ester che grazie a un affascinante gioco di specchi, in A Strange Love Affair With Ego, ci restituisce l’immagine di altre donne imperfette, artiste nude e fragili davanti alla macchina da presa, protagoniste o prigioniere della società dell’apparire. È così che facciamo la conoscenza di Renée van Trier, performer olandese meno celebre del suo corrispettivo americano Miranda July. In Maggie’s Plan le star sono addirittura tre. A cominciare dalla regista Rebecca Miller, una filmografia che pone al centro della sua personale ricerca caratteri femminili, affare non sempre facile o remunerativo a Hollywood. Ai piani alti, la discendenza lo permette. Basti pensare al lavoro di Angelica Houston, Sofia Coppola… Rebecca Miller è figlia del drammaturgo Arthur, beati i clan! Mentre sullo schermo scorrono le immagini della pellicola, è impossibile restare indifferenti alla prova d’attrice di Greta Gerwig, la splendida Frances Ha del regista e compagno Noah Baumbach, rivista anche nell’ultimo Mistress America. Introdotta dal cineasta Joe Swanberg nel movimento indipendente Mumblecore, caratterizzato soprattutto dalla produzione di film a bassissimo budget, Greta è cresciuta e tiene testa al premio oscar Julienne Moore. Colonna sonora all’altezza delle aspettative con un nome come Adam Horovitz tra i crediti e la moglie dell’ex Beastie Boys, Kathleen Hanna in un cameo che fa il verso allo Springsteen di Dance In The Dark. Per gli affezionati del festival ricordo che avevamo già incontrato Kathleen Hanna al Biografilm due anni fa protagonista del documentario di Sini Anderson, The Punk Singer.

Volendo seguire le tracce delle passate edizioni è d’obbligo fare i conti con Anna Piaggi, Una Visionaria Della Moda di Alina Marazzi. Anna Piaggi, la nostra Iris Apfel, la stylist che ha inventato il vintage, una di quelle esistenze visionarie che solo questo festival riesce a indagare così bene, a scoprire o a riscoprire e chissà se è un caso vedere oggi la novantaquattrenne Apfel testimonial di una nota casa automobilistica. Se l’anno passato una grossa fetta di intrattenimento americano c’era stata raccontata da Douglas Tirola e dal suo Drunk Stoned Brillant Dead: The Story Of The National Lampoon, quest’anno è toccato a Heidi Ewing e Rachel Grady, narrarci cinquant’anni di entertainment attraverso la vita, le parole e soprattutto le sorprendenti intuizioni di Norman Lear: Just Another Version Of You. Ewing e Grady, coppia di registe già incontrate al Biografilm con Detropia, cambiano completamente registro e ci seducono con un personaggio che sarebbe un peccato non raccontare, ma soprattutto non ascoltare. Non a caso la trama prende il via dal suo memoir pubblicato da poco negli Stati Uniti e che ci restituisce un ritratto di Norman inedito persino ai suoi figli. Un altro novantenne insomma, la cui vita pare infinitamente più ricca e forse spassosa delle tante commedie da lui firmate: da All In The Family (Arcibaldo) a Sanford and Son, da The Jeffersons a Diff’rent Strokes (Il Mio Amico Arnord). 

Se un paio di edizioni fa a Marina Abramovic era bastato uno sguardo dal trono di legno di The Artist Is Present per paralizzarci sulle poltrone, quest’anno The Space In Between: Marina Abramovic and Brazil non ha la stessa presa. Eppure erano state proprio le sue lacrime a rapirci, quelle versate per l’ex compagno di arte e vita Ulay, le stesse che in questa ennesima sperimentazione, Marina offre da subito come chiave di lettura del nuovo viaggio. Un percorso di guarigione spirituale tra medium ad Abadiania, erboristi a Chapada, sciamani a Curitiba. Ma i tormenti del cuore questa volta producono un moto già visto, una performance tra arte e vita cui tributare massimo rispetto e fedele attesa alla prossima tappa. Ancora una carrellata nutrita di volti femminili tra i premiati. Se Tom Fassaert, il cordiale e disponibilissimo regista di A Family Affair si è portato a casa il Best Film Unipol Award per i suoi intrighi famigliari, il premio è tutto per nonna Marianne. Altra novantenne, donna imperscrutabile, che non concede fughe fin dall’inizio delle riprese, quando ammette candidamente che capire cosa è andato storto non è affatto un suo problema, ma di suo nipote Tom, che dietro la macchina da presa cerca risposte in cambio di ferite dolorosissime. Marianne Hertz è una forza della natura, è un vento che strappa semi alla terra, li porta in giro e forse a marcire altrove. Una boccata d’aria fresca che toglie spesso il respiro. Menzione speciale e Best Film Yoga Award a Goodbye Darling, I’m Off Fight, forse uno dei lavori che ha avuto più visibilità sulla stampa nei giorni del festival. Davanti alla camera del regista Simone Manetti incontriamo Chantal Ughi, presente al Biografilm per cercare di introdurci alle sue tante vite. A poco più di trent’anni Chantal è stata modella, attrice, cantante e campionessa di muay thai, la boxe thailandese cui è approdata dopo un periodo di crisi personale. E ancora i bei documentari Princess Shaw di Ido Haar e Sonita di Rokhsareh Ghaem Maghami, Life Tales Award al primo e Premio Hera Nuovi Talenti al secondo. Storie difficili, con al centro donne tenaci, delle quali è improbabile non innamorarsi. Ninna Nanna Prigioniera di Rossella Schillaci, premiato dalla giuria Biografilm Italia, segue lo stesso percorso motivazionale di denuncia. Questa una sintesi del tutto parziale del festival, una pioggia di titoli che andrebbe assaporata prima di essere masticata e infine digerita.

Da spettatrice storica del Biografilm, trovo molto interessante e affatto banale avere la possibilità di costruirsi un percorso proprio tra le sale e confrontarlo con quello di altri, considerare i punti in comune e poi correre dalla parte opposta per la successiva proiezione. Quest’anno è stato l’aspetto dedicato agli intricati percorsi femminili ad assorbirmi, un imbroglio complesso di arte, musica, storie italiane e non. Ma sarebbe ingiusto non considerare tutte le altre strade e sono davvero tante. Per questo rimando al sito del Biografilm e alla possibilità di recuperare le proiezioni perse grazie al consolidato gruppo di professionisti che spesso si fa carico anche della distribuzione delle opere presentate. Piccole e grandi storie di vita che sarebbe un peccato restassero impiccate al solo concorso.