di Armando Iannucci - Francia/UK (2017) Scheda del film
Con Steve Buscemi, Simon Russell Beale, Jason Isaacs, Olga Kurylenko, Adrian McLoughlin
https://www.youtube.com/watch?v=kPpXFnHoC-0
Un eccezionale maestro di cinema che ho avuto la fortuna di conoscere mi ha insegnato che “il cinema non è cronaca”. Lui parlava del montaggio, ma questo è un principio applicabile a ogni aspetto di un film, che non è, e per fortuna nemmeno potrebbe esserlo, la riproposizione di meri fatti. Non è certo un caso se si parla di magia del cinema.
Ciò vale per la settima arte in qualunque sua declinazione, e sarebbe futile e anche un po’ sciocco cavillare su quali generi debbano rispettare di più la realtà. Persino i film storici, infatti, che pure qualcuno vorrebbe come baluardo di verità, non hanno alcun dovere in questo senso. Lo ha dimostrato pochi anni fa Quentin Tarantino, che con Bastardi senza gloria ha preso uno dei periodi più tragici e studiati della modernità (la Seconda guerra mondiale e il nazismo) e lo ha stravolto, modellandolo secondo i suoi gusti e, letteralmente, cambiando la storia. Non si tratta di scorie di postmodernismo, ma del legittimo diritto di un regista di utilizzare la materia storica per portare avanti il proprio discorso artistico, estetico, concettuale.
L’operazione compiuta da Armando Iannucci (scozzese, a dispetto del nome) con il film che porta in concorso a questa trentacinquesima edizione del Torino Film Festival non è radicale quanto quella di Tarantino, ma queste sono considerazioni da avere comunque bene in mente quando si guarda The death of Stalin.
Quale episodio storico Iannucci abbia deciso di raccontare è facilmente intuibile dal titolo: la morte del dittatore sovietico, e tutti i giochi di potere che ne conseguirono. La libertà che il regista si è preso è doppia. Da una parte, ovviamente, quella puramente narrativa: Iannucci racconta i retroscena privati di avvenimenti consumatisi in segreto nelle stanze del potere russo, e questo lo costringe all’invenzione. Un’invenzione in realtà ancora credibile, però, non sono mai rappresentati momenti davvero impossibili. Il distacco vero e proprio dal principio di verosimiglianza lo si ha infatti nel modo in cui tutto viene raccontato, perché The death of Stalin è una commedia in bilico tra la satira e l’assurdo, impietosa nel ritrarre i membri di spicco di uno dei più crudeli regimi che la storia abbia mai conosciuto come degli idioti. Spesso astuti, sempre spietati, ma mai intelligenti. L’influenza dei fratelli Coen nella scrittura dei personaggi è palese (e infatti nell’eccellente cast figura Steve Buscemi, attore feticcio del duo).
Questa doppiezza (stupidità/crudeltà) appartiene a tutto il film, che è e rimane una commedia, a tratti divertentissima, ma che nell’illustrare la dittatura sovietica non ne tace gli orrori, sfruttando le scene in cui entra in azione la NKVD (la polizia segreta sovietica) per dare a vita a sequenze angosciose degne di un ottimo thriller.
Iannucci riesce quindi in un’ardua impresa: far ridere su un tragedia senza nasconderla. L’attendibilità storica è minima (e che questa non fosse una preoccupazione del regista lo si capisce notando quanto molti degli attori non assomiglino per nulla ai personaggi reali che interpretano), ma è proprio attraverso le libertà prese che il film riesce in qualche modo a portare al suo pubblico almeno una porzione di realtà, pur senza rappresentarla. Perché la deformazione caricaturale degli intrighi di palazzo finisce per restituire alla perfezione la grottesca ossessione per il potere che divorava il governo sovietico. La sua antistoricità è quindi alla fine perfettamente storica, dimostrando quanto un buon film (e The death of Stalin è un buonissimo film) possa ricorrere all’invenzione per raccontare una realtà.
Il cinema è racconto, e l’anima del racconto è l’invenzione, o per lo meno la possibilità di inventare. E se Tarantino (re)inventava la Storia per farne un film di Tarantino, Iannucci lo fa solo in parte, per restituire più vividamente una realtà a noi lontana. Anche il cinema storico, quindi, dà a un film possibilità diverse di essere narrato, perché, come tutto il cinema, non è, non può essere cronaca.
Per la redazione Marcello Bonini