Si è conclusa sabato 9 settembre la 74ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, che rimarrà negli annali per il bellissimo errore della traduttrice durante la cerimonia, la quale al Leone d’oro Guillermo Del Toro che sosteneva di avere “faith in monsters” ha fatto dire di “credere nella senape”. Prima di quel momento, erano stati assegnati tutti i premi di questa edizione del Festival, con tante scelte inaspettate ma nessuna grande sorpresa. A partire proprio dal premio più importante, andato a The Shape of Water.
La fiaba dark del regista messicano era stata indubbiamente uno dei film più apprezzati dalla critica e dal pubblico, quindi la scelta della giuria giunge almeno in parte prevista. Questo non ha evitato qualche polemica, perché per molti non era il film migliore in gara (il che è probabilmente anche vero), e perché si tratta di un film che può apparire lontano da quello che si immagina dovrebbe essere un film “da festival”. È un fantasy dalle tinte horror, quindi un film di genere, ed è commerciale, e prima dell’inizio della Mostra sembrava impensabile che un film simile potesse ambire al Leone d’oro. Ma lo stesso Del Toro ha saputo trovare un senso a questa scelta, che forse finalmente legittima, ed era ora, il cinema di genere, di tutti i generi, come cinema vero, di pari dignità a qualunque altra sua forma. I festival dovrebbero ancora avere il compito di dare visibilità a pellicole altrimenti invisibili, ma, al netto di questo, è giusto che al loro interno tutto riesca a trovare spazio, senza più ottuse distinzioni tra film da festival e film non da festival. Anche perché, dopotutto, sebbene forse ci fossero un paio di titoli più meritevoli, The Shape of Water è un bellissimo film, che sotto la superficie di una storia d’amore tra una donna delle pulizie muta e un mostro anfibio cela una grande ricchezza tematica, narrata attraverso il solito genio visivo di Del Toro.
I due premi della giuria (nei fatti secondo e terzo posto) sono invece andati a Foxtrot dell’israeliano e Leone d’oro 2009 Samuel Maoz e a Sweet Country di Warwick Thornton. Se il primo è ineccepibile (Foxtrot è stato uno dei titoli migliori di questa edizione), ha sicuramente sorpreso tutti il premio a Thornton, il cui western antirazzista è sicuramente discreto, ma, a parte l’insolita ambientazione, non va oltre all’essere un prodotto ben confezionato ma non degno di particolare nota.
Ma tra tutte, la statuetta che ha più spiazzato è stata il Leone d’argento per la migliore regia a Xavier Legrand per Jusqu'à la garde, al suo primo film, una storia sullo stalking e la violenza familiare. Non avrebbe sorpreso nessuno il Premio speciale della giuria, mentre può parere esagerato attribuire un premio così importante a un film tutt’altro che perfetto, la cui regia non ha nulla di memorabile (mentre altri film si facevano apprezzare proprio per il loro impianto visivo, in particolare Foxtrot). Rimane comunque un buonissimo esordio, e ogni possibile disappunto è stato spazzato via dal bellissimo discorso di Legrand (che ha anche ricevuto il più meritato premio per la migliore opera prima), poche parole rotte da un continuo pianto di gioia.
La Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile è invece andata a chi tutti si aspettavano andasse: Charlotte Rampling in Hannah, dell’italiano trapiantato in Belgio Andrea Pallaoro, dove interpreta magistralmente un personaggio molto di moda quest’anno al Lido: la persona anziana sola e depressa. Tant’è che pareva che anche la Coppa maschile potesse andare a un attore alle prese con un ruolo simile, Donald Sutherland in The Leisure Seeker di Paolo Virzì. Ma Sutherland, attore straordinario con un brutto rapporto con i premi (mai nemmeno una nomination agli Oscar, per lui), è stato superato dal secondo favorito, Kamel El Basha, ottimo attore teatrale che ne L’insulte di Ziad Doueiri ha ottenuto il suo primo ruolo cinematografico da protagonista, nei panni di un capocantiere palestinese il cui litigio con un libanese cristiano a Beirut assume connotati politici nazionali. Due scelte inattaccabili.
Come è inattaccabile il Premio Mastroianni ad un attore o attrice emergente a Charlie Plummer per Lean on Pete di Andrew Haigh, mediocre storia di un ragazzino in fuga con un cavallo rubato il cui pregio maggiore è proprio l’interpretazione del suo giovane protagonista.
Infine, solo un premio di consolazione a Three Billboards Outsiode Ebbing, Missouri di Martin McDonagh, grande favorito del concorso e indubbiamente tra i migliori due o tre film dell’edizione, che si è dovuto accontentare del Premio Osella per la sceneggiatura. Riconoscimento che questa commedia merita senza dubbio, ma era lecito aspettarsi che ottenesse qualcosa di più, ed è indubbiamente la grande delusa del festival.
Ma almeno McDonagh torna a casa con un premio, al contrario di altri autori le cui aspettative non sono state rispettate. Intanto Clooney, che con la sceneggiatura di Suburbicon, scritta con i fratelli Coen (e Grant Heslov), probabilmente sperava proprio nell’Osella, poi due autori solitamente molto amati dai festival e dalla critica, Frederick Wiseman e Abdellatif Kechiche. Il primo aveva portato a Venezia il suo nuovo documentario-fiume Ex Libris, nelle cui tre ore e un quarto si aggira per la New York Public Library; nonostante sia indubbiamente ostico per il grande pubblico, aveva ottenuto grandi consensi, risultando uno dei film più apprezzati della Mostra, e sembrava potesse ottenere almeno uno dei premi della giuria (e sarebbe stato più che meritato, vista la sua eccelsa qualità).
Ben più divisivo invece è stato, come sempre, il regista franco-tunisino, il cui Mektoub, My Love: Canto Uno aveva fatto gridare molti al capolavoro, mentre altri ne avevano criticato lo sguardo morboso e forse maschilista sul corpo femminile. Evidentemente la giuria presieduta da una donna non ha fatto parte del primo gruppo.
Infine, un discorso a parte lo meritano gli italiani, che non ottengono nulla, perché sarebbe troppo facile, come ha già tentato qualcuno, far proprio il premio a Rampling, attrice britannica in un film belga diretto sì da un italiano, ma che da anni vive e lavora in Belgio. Non è il caso però di mettersi già ad annunciare la morte del cinema italiano, dopotutto nelle ultime cinque edizioni film nostrani hanno guadagnato un Leone d’oro e tre Coppe Volpi, un bottino non entusiasmante ma tutto sommato decoroso. Certo però quest’anno le speranze di ottenere qualcosa erano poche. L’unico film che aveva qualche possibilità era appunto Hannah; sicuramente poteva piacere alla giuria ed è piaciuto, anche se non abbastanza. Ma, tolto Pallaoro, era lecito non aspettarsi nulla dagli altri. Non necessariamente per questioni di qualità: The Leisure Seeker di Virzì (di nuovo però un regista italiano in una produzione straniera) è un film godibile ma non aveva certo le caratteristiche per vincere qualcosa se non i premi per le interpretazioni. Soprattutto scimmiotta un po’ troppo il cinema statunitense, e in un’edizione piena di film americani (otto, più un britannico e un australiano), avrebbe avuto poco senso preferire un’imitazione pur buona a un prodotto originale.
Era poi improponibile pensare che fosse il film di Sebastiano Riso a tenere alto l’onore dell’Italia: numeri alla mano, Una famiglia, fischiatissimo a tutte le sue proiezioni, è il film che ha ottenuto i giudizi più negativi dalla critica, che lo ha stroncato all’unanimità, e in effetti a vederlo viene da chiedersi come abbia fatto a essere selezionato. Ma su questo errore degli organizzatori si può soprassedere per via della scelta più coraggiosa compiuta in questa edizione: portare in concorso il miglior film italiano, Ammore e malavita dei Manetti Bros., a loro stesso dire un elefante in una galleria d’arte. Questo geniale musical camorristico era quasi impresentabile a un festival come quello di Venezia, ed è risultato il film più amato quest’anno, e indubbiamente tra i migliori. Avrebbe meritato qualcosa, un premio della giuria, la Coppa Volpi alla magnifica Claudia Gerini, e persino assegnarli il Leone d’oro sarebbe stato un po’ esagerato ma tutt’altro che sbagliato. Purtroppo però era immaginabile che una giuria così internazionale lo ignorasse, passandoci sopra come fosse solo un divertissement troppo italiano (e in parte lo è, ma è anche molto altro). Quindi per quest’anno nulla all’Italia, ma, come detto, non bisogna disperare, visto che comunque cose belle provenire dal nostro paese si sono viste.
A conclusione, si può dire che al tentativo del Festival di aprirsi a un cinema anche più commerciale sono seguiti in effetti premi più pop. È mancata sicuramente la valorizzazione di un altro cinema, più piccolo, segno che forse la Mostra deve ancora trovare un nuovo equilibrio. Ma, se si può senza dubbio criticare questa assenza, d’altro canto non si possono nemmeno condannare troppo duramente le scelte compiute, in buona parte ragionevoli.