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Dal 20 al 25 novembre torna a Bologna Festival 20 30: spettacoli teatrali, laboratori e performance artistiche totalmente gratuiti, ideati da giovani per i giovani.
Il Festival è realizzato grazie contributo di Fondazione del Monte, Ert- Emilia Romagna Teatro Fondazione, Comune di Bologna, Cultura è Bologna ed è in collaborazione con BilbolBul - Festival internazionale di fumetto.
L’edizione di quest'anno è intitolata "Salto nel vuoto - fino a qui tutto bene" e ripropone EXIT, la sezione "off" che porta il Festival fuori dal teatro, dal 16 al 18 novembre.
Cosa fanno i giovani? È vero che non vanno a teatro? Cosa fa il teatro per loro? Lo abbiamo chiesto agli organizzatori di Festival 20 30 Enrico Baraldi, Marco Obino e Olivia Teglia.
- Cos'è Festival 20 30 e come si inserisce il gruppo Avanguardie 20 30 nell'organizzazione?
ENRICO: Festival 20 30 nasce nel 2014 da una riflessione che abbiamo condotto Nicola Borghesi ed io, sull'assenza di spettacoli pensati appositamente per un pubblico che abbia tra i 20 e i 30 anni. Il Festival prede vita in una formula molto semplice: cinque serate, in ognuna delle quali si esibisce una compagnia di teatro o un artista musicale, che viene invitato a Bologna per una replica del proprio spettacolo. Oltre allo spettacolo, chiediamo all’artista o alla compagnia di fare un laboratorio gratuito di quattro giorni, in cui condividere con un gruppo di ragazzi un’esperienza non relativa alla pedagogia teatrale, ma al racconto di una generazione. L’obiettivo è quello di indagare le identità dei giovani e di farlo sul palcoscenico.
MARCO: Nicola Borghesi, il creatore del Festival, ci ha raccontato che la prima edizione dl 2014 è stata una grande sorpresa, perché non ci si aspettava una partecipazione tanto grande ed entusiasta. Da qui, l'idea di coinvolgere i partecipanti nella realizzazione della seconda edizione, riunendo tutti in una direzione artistica condivisa, Avanguardie 20 30, che ha dato vita al format del Festival così come è oggi. A Da questa partecipazione attiva, è nata un’altra idea, quella di organizzare una parte "off", che si chiama EXIT.
OLIVIA: EXIT è il progetto off di Festival 20 30 che è nato l’anno scorso da un concept mio e di Lucia Fontanelli, che fa parte delle Avanguardie. Dalla nostra collaborazione è nato il desiderio di ampliare le proposte di Festival anche ad altre pratiche artistiche come le arti visive, la performance, la musica. EXIT quest’anno sarà un contenitore ibrido: un evento di 3 giorni in cui sarà possibile entrare in 9 case private di ragazzi che hanno deciso di aprire la porta ad un artista, che indagherà l’identità di quel luogo realizzando un’opera site specific.
- Nel corso di questi anni, che relazione si è instaurata con gli spettatori?
ENRICO: Fin dalla prima edizione del Festival, la cosa che ci ha sorpreso di più sono le lunghe file che si creano fuori dal teatro, file di persone che aspettano di entrare a vedere uno spettacolo: questo per noi è il valore più deflagrante e potente del Festival. Dopo 5 anni, chiaramente, la relazione con gli spettatori un po’ cambia. Si crea un rapporto di fiducia e noi sentiamo di avere una responsabilità, cioè quella di condividere con il nostro pubblico un’esperienza che sia sempre dialogica e di incontro, attraverso sia i laboratori, che gli spettacoli.
Per noi è essenziale dialogare il nostro pubblico. Ad esempio, noi teniamo conto di quello che chiamiamo “Coefficiente del coinquilino di fisica”. Quando scegliamo gli spettacoli ci chiediamo sempre: se porto il mio coinquilino che studia fisica e che non è mai stato a teatro, cosa penserà lui dello spettacolo? Come faccio ad agganciarlo e far sì che non ne esca annoiato, schifato, arrabbiato e senza la minima volontà di tornare? Come faccio a proporgli qualcosa che anche lui possa apprezzare? Ovviamente, è impossibile fare un discorso che sia sempre onnicomprensivo, ma tentiamo di restare in ascolto del nostro pubblico.
Quest’anno il discorso si amplia perché si ampliano i luoghi del Festival. Stiamo collaborando con Arena del Sole, cioè il Teatro della città, un’istituzione molto importante che ci sta dando, a sua volta, tanta fiducia. La nostra responsabilità in questa edizione è portare nel Teatro della città la nostra identità e il nostro pubblico, senza cambiare le regole del gioco che abbiamo costruito insieme.
- Pare che il teatro non sia un luogo molto frequentato dai giovani. Secondo voi, perché i giovani non ne sono avvezzi o interessati? Esistono delle ragioni a monte?
ENRICO: Festival 20 30 muove i primi passi proprio da questa domanda, e le risposte che ci siamo dati sono sempre parziali. Innanzitutto, ma è vero che i giovani non vanno a teatro? Non è così immediato capire quale sia la loro tendenza. Poi, ci viene subito in mente un’altra domanda: ma chi sono i giovani? Come facciamo a definirli, è solo una questione anagrafica? Quali, quelli del centro, gli studenti, i lavoratori? La realtà è complessa e il teatro pare essersene dimenticato, sembra che si stia chiudendo su se stesso, rivolgendosi a un pubblico che è già molto vicino, senza cercare un po’ più in là. Noi, allora, gli spettatori ce li andiamo a cercare, uno ad uno, diamo loro il volantino mentre fanno aperitivo in via Zamboni o altrove, li invitiamo: “Vieni! C’è una cosa che facciamo noi che siamo come te e che può piacerti!”.
Infine, forse i giovani non vanno a teatro perché non sanno che c’è il teatro. Non sanno che esiste e cosa succede dentro, è un pianeta lontano che si guarda con sospetto e scarsa fiducia perché non si conosce, e ci si chiede: ci sarà vita su quel pianeta? Noi proviamo a metterci un po’ di entusiasmo, perché ci piace e perché funziona.
MARCO: Un'altra ragione potrebbe essere la barriera economica da affrontare, nonostante esistano a Bologna diverse convenzioni per i giovani. Per di più, Festival 20 30 è totalmente gratuito! Inoltre, c'è una questione di linguaggio. Nell’immaginario comune, il teatro è visto come una pratica culturale alta: come se al suo interno l’incontro tra cultura alta e cultura bassa, che avviene ad esempio ai concerti, non fosse possibile. Festival 20 30 vuole dimostrare, invece, che anche a teatro questa commistione è possibile, perché il teatro è divertente, è emozionante e non è necessariamente il luogo dove trova forma solo il linguaggio aulico della cultura alta. Il teatro può essere comprensibile, alla portata di tutti e, soprattutto, godibile da tutti, a partire dalle nuove generazioni.
- Ci sono stati uno o più spettacoli che vi hanno sconvolto e cambiato la vita, dentro e fuori Festival 20 30?
ENRICO: Lo spettacolo che mi ha sconvolto di più all'interno di Festival 20 30 è "Il ritratto della salute" di Chiara Stoppa, che è andato in scena nella prima edizione. Racconta la storia vera della malattia di Chiara, una malattia inguaribile con la quale continua ad avere un rapporto, che riporta in scena.
Fuori dal Festival, uno spettacolo che mi ha molto impressionato è Nachlass dei Rimini Protocoll, una compagnia di Berlino. In realtà è un’installazione: lo spettatore entra in nove stanze e in ognuna trova il testamento ideologico, etico e politico di una persona che è deceduta o ha a che fare con la morte. Di stanza in stanza, si attraversano discorsi molto coinvolgenti sul lascito e sull’assenza, tutti registrati e senza attori in scena.Si riusciva a percepire la presenza della persona nella sua assenza e questo mi ha sconvolto moltissimo.
- Cos'è per voi il teatro e quale teatro volete fare?
ENRICO: Declan Donnellan dà una definizione che nella sua semplicità trovo molto giusta: il teatro è un luogo dove entra un gruppo di persone che poi si divide in due, e una parte racconta una storia all’altra. Una parola che trovo centrale è storia. Dunque, il teatro che voglio fare è prima di ogni altra cosa, un teatro che racconti delle storie.
Un'altra parola imprescindibile è realtà. Credo che la realtà abbia una forza autonoma e drammaturgica che si esprime bene sul palcoscenico. Faccio parte della compagnia Kepler 452, insieme a Paola Aiello e Nicola Borghesi; nei nostri spettacoli abbiamo sempre in scena delle persone che non sono attori di professione, ma che coinvolgiamo in virtù del nostro interesse verso le loro storie personali. In questo momento c'è una feroce necessità di realtà, laddove le narrazioni che ci circondano sono impalpabili, indecifrabili, difficili da cogliere. Il teatro può rispondere a tutto questo portando in scena il reale, svelandolo e chiamandolo in causa.
Credo, infine, che il teatro che voglio fare riguardi l’umanità. In fondo, è un modo di stare insieme e di riflettere su come si sta insieme, su come si possa fare comunità e si possa condurre un reale diverso, altro rispetto ai modi in cui la nostra quotidianità è organizzata.
MARCO: Se devo pensare a due parole per definire il teatro sono relazione e socievolezza. Relazione, perché durante un spettacolo dal vivo si instaura necessariamente un rapporto tra chi va in scena e chi assiste. La socievolezza, invece, perché, citando Claudio Longhi, c'è il bisogno di stare insieme, un bisogno intimo e insostituibile della società che il teatro riesce a soddisfare, al contrario dei mezzi di fruizione culturale che mettono al centro un'esperienza più individuale.
- Appellandovi alla vostra esperienza personale, che consigli dareste a giovani che vogliono fare teatro?
OLIVIA: Ai giovani che vogliono fare teatro consiglierei innanzitutto di guardarsi intorno ogni giorno, perché penso che l’arte abbia sempre, costantemente e inevitabilmente a che fare con la vita. Non basta solo stare a teatro e frequentarlo, bisogna stare nel mondo con un occhio molto sveglio e molto aperto. Poi consiglio di venire a Festival 20 30!
PROGRAMMA COMPLETO di Festival 20 30
EXIT a cura di Avanguardie 20 30
16-18 novembre 2018
FESTIVAL 20 30
20-25 novembre 2018
Arena del Sole, via dell'Indipendenza 44
Oratorio San Filippo Neri, via Manzoni 5